Smoke Inside – All About Jazz Italia

All About Jazz Italia talks about Smoke Inside

Il sassofonista milanese Daniele Cavallanti – oltre a possedere una delle più intense voci tenorsassofonistiche oggi in circolazione – è probabilmente uno degli artisti più onesti del panorama jazzistico italiano, dotato di un’integrità e di una coerenza musicale tale che a volte rischia di farlo passare in secondo piano in uno scenario dove tutti sgomitano, con più o meno malizia, per trovare il loro posticino nella foto collettiva.
Compagno di avventure di Tiziano Tononi nel collettivo Nexus, nelle non frequenti prove a proprio nome Cavallanti ha sempre dimostrato di sapere costruire delle traiettorie convincenti per la propria musica, partendo dalla lezione del free storico per lavorare con dedizione sugli snodi tra la tradizione nera e la spiazzante apertura di possibilità del contemporaneo. Ricordiamo ad esempio lo strepitoso Times for Peace con Dewey Redman o il più recente Holy Stone, entrambi incisi per la Splasc(h).
Questo nuovo lavoro, alla guida di una “electric unit” che unisce solidità e flessibilità timbrica, vede la presenza del chitarrista Nels Cline, di una seconda chitarra affidata in alcune tracce a Simone Massaron, del piano elettrico di Ivano Borgazzi, oltre al basso di Giovanni Maier, la batteria di Tononi e le percussioni di Pacho.
L’amicizia con Cline – artista che sembra attraversare un notevole periodo creativo, si ascolti ad esempio il recente omaggio a Andrew Hill di New Monastery – ci spiega Cavallanti nelle brevi note accluse al disco, risale alla prima metà degli anni Novanta, quando i due musicisti hanno suonato insieme a Los Angeles.
Messa a contatto con la dimensione elettrica la musica di Cavallanti amplia inevitabilmente i propri punti di riferimento: entrano infatti in gioco tutta una serie di suggestioni oblique che vanno dal Miles Davis elettrico al jazz-funk più groovoso e diretto [si ascolti la parte centrale di “Ahimsa”], senza tralasciare di mantenere un forte impianto blues di base, come è sempre stato nel vocabolario del sassofonista milanese.
Particolarmente significativo è l’inserimento, a metà disco, di una nuova versione di “Moods for Dewey”, un brano classico del repertorio di Cavallanti: il malizioso vamp che in Times For Peace era affidato al pianoforte di Stefano Battaglia [in un mai celato richiamo al connubio Jarrett-Redman] viene qui affidato alla chitarra e diventa l’ipnotico terreno per intense escursioni solistiche. Pochi mesi dopo l’incisione di questa nuova versione, la notizia della morte di Dewey Redman [che in un anno particolarmente funestato dai lutti jazzistici è passata forse troppo inosservata]: un motivo in più per ricordare del grande sassofonista il valore espressivo.
Cline contribuisce in modo molto vario ai brani, grazie a una tavolozza timbrica riconoscibile ma molto flessibile e ad una sensibilità che non tutti i musicisti “ospiti”, anche quelli più aperti, hanno. Nelle fasi più aperte e esplorative è forse il piano elettrico a suonare un po’ scontato, non certo per demerito di Borgazzi, ma perché rischia di ancorare il suono collettivo a climi più risaputi.
È quindi la notturna “Lonesome Drive” a scivolare via come luci veloci nel traffico, per lasciare il posto alla graffiante “Fabrizio’s Mood”, scritta insieme al produttore del disco, mentre la “Go On Moses” posta alla fine è firmata dall’altro chitarrista e chiude in un certo senso il cerchio con la tradizione spirituale che tanto significato ha sempre avuto nell’espressione di Cavallanti.
Smoke Inside è così al tempo stesso un disco che “alleggerisce” e apre, che stringe collegamenti senza perdere il contatto con la base da cui la musica del sassofonista proviene. Qualcuno potrebbe trovarlo in alcuni punti più “convenzionale” di altre pagine di Cavallanti, molti altre forse lo troveranno più “godibile”. Forse per capire al meglio questo lavoro si può tentare un’altra strada, che apra un dialogo fitto con la tradizione nera, la dove il blues da jam elettrica e il furore ayleriano si danno, nemmeno troppo di nascosto, la mano.

Enrico Bettinello

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