Non è che segua granchè la scena musicale e le sue mode, ma se pure radio deejay si mette a passare gente come Of Monsters And Men, Mumford And Sons e in qualche rara occasione pureEdward Sharpe And The Magnetic Zeros mi vien da pensare che il folk stia vivendo una seconda gioventù, svecchiato e non più relegato alle zone rurali degli States: me ne sono convinto definitivamente ascoltando alla radio di cui sopra una specie di ibrido folk-zarro, di cui ho dimenticato subito il nome (e non me ne sento così dispiaciuto). Beh di folk si parla anche qui, ma non c’entra un cazzo con quanto scritto finora.
Paolo Novellino, in arte Laboule, su radio deejay non passerà mai. Non è che voglio portargli sfiga, è che i suoi pezzi hanno lo stesso appeal radiofonico generalista del grind o del deathcore. E’ come se nella sua musica avesse frullato insieme la psichedelia blues malata del primo Samuel Katarro, la tradizione folk di nuove incarnazioni come il benemerito A.A. Bondy (senza i suoi suoni soffusamente bizzarri però) ed il gusto per atmosfere quasi da colonna sonora di un altro compatriota dedito alle sperimentazioni self-made sotto pseudonimo, l’Andrea Faccioli meglio noto come Cabeki. Il fatto che magari non abbiate sentito nominare nessuno dei tre elencati qui sopra depone a mio sfavore per quanto riguarda il riuscire a farvi capire quello che vi potreste trovare di fronte ascoltando questo Refugio, ma se avete del tempo da perdere fate che ascoltare qualcosa di tutti questi e (spero) mi ringrazierete.
Il gioco è semplice: dividere 11 pezzi fra ballate folk-blues semplici ma suggestive, meglio se coadiuvate da una leggiadra voce femminile o da doppie voci in falsetto (“Mojo N° 22”, “Gogol”), rarefatte composizioni strumentali in cui i silenzi sono tanto importanti quanto gli arpeggi (l’iniziale “Spore” è un esempio assolutamente calzante) e, perlopiù, pezzi dove i due elementi si mischiano fra di loro e con una buona dose di psichedelia. “Simunin” ad esempio, dove l’inizio sembra promettere un tranquillo viaggio a due voci accompagnato dagli arpeggi della chitarra acustica (unica, o quasi, protagonista in tutto il disco) salvo subire la contaminazione di rumorismi orientaleggianti che portano il trip su di un altro livello. E forse è fare un torto a questo album il voler scomporre i suoi brani dal risultato generale, perchè la parola trip usata poco fa è il termine migliore per definire questa esperienza musicale, lenta ed avvolgente nelle sue atmosfere riflessive che in qualche momento portano con sé vivide immagini di enormi spazi aperti come solo le migliori colonne sonore riescono a fare (“Gatash 432”, “Bouzuki E Balene” ed il suo coretto finale splendente come un raggio di sole): con buona pace dei momenti cantati sono proprio i punti in cui la chitarra porta su di sé tutto il peso della riuscita dei brani che si sentono le cose migliori.
Non so se sono riuscito a rendere l’idea di quanto valgano, a mio parere, le capacità artistiche del progetto Laboule, ma spero almeno che le parole spese in queste poche righe bastino a spingervi ad approfondire la conoscenza musicale di un artista che ha saputo emozionarmi a lunghi tratti.